C’erano tutti. La saletta del ristorante Storyoff, specialità multietniche, si stava riempiendo di commensali che si accomodavano al tavolo. L’atmosfera era quella grave delle occasioni importanti. I visi erano tesi, ma sereni. Da tutti i volti traspariva tenerezza e, da molti, un po’ di rimpianto.

Le pietanze del menù non banale, forse un tantino pretenzioso, avevano iniziato a comparire nei piatti, deliziando i palati di Hubert, di Otto, di Ester, e via via, di tutti gli altri. Tartara di sella di salmone al pernod, spassatelli di rana mascherata, capesante agli agrumi di sangue (che solo a vederle, le gambe facevano giacomogiacomo…) , bis di pesce spada e martello in cudine di burro di fonderia, artisciocchi crogiuolati nella menta fresca. Per non dire, a questo proposito, dell’enorme vassoio di  “frito sconto ma salà” che troneggiava tra gli aperitivi, portato da Giudecca, l’amica di Magda. E come resistere alla zuppiera di Quarzata mantovana, ricetta madre, capostitpite di tutte le leccornie di Senza, o al tegame di Trota Enrosadira del LateMar, portato da laDina?

Vini fantastici si abbinavano in armonia alle pietanze.

L’allegra confusione conviviale di tutta quella brava gente era al massimo. Antelao Spit e Adelmo Corniolet discutevano animatamente sull’ornamento più opportuno per le crode, incuranti dello sguardo un po’ perso e un po’ contrito di Pulsatilla Galauvergne, che si sentiva un po’ in anticipo, fuori stagione. Redenta Calben era commossa, e persa col pensiero lontano. Quanti ricordi non ricordati…

Ester Bolenghin e Aurelio Bagolari si contendevano l’ultima fetta di mortadella del cartoccio di carta oleata e olezzosa che Aurelio aveva aperto di soppiatto accanto al loro piatto.

Ma…

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Ma a ben vedere, una certa irrequietezza iniziava a serpeggiare. Niente di evidente, per carità, nè tantomeno nulla che apparisse più di un tremolio nella voce, appena accennato e subito spianato con una risata, di un battere di ciglia appena più prolungato del naturale lasso di tempo che serve ad una palpebra per umettare la cornea, però… non era forse tipico del Martocleto quell’improvviso riflesso di squame lucenti che a Redenta sembrava aver intravisto guizzare nell’oscurità di quel corridoio buio là in fondo? Non era il profumo muschioso di Martocleto maturo l’aroma che le esperte nari di Hubert von Totenschwanz avevano avvertito sprofondate nel calice di Pfefferer? Ed Ester non si era stretta nel suo stupendo foulard di seta martocletina per riparare le candide spalle dal soffio gelido che un livido e statuario Martocleto aveva brevemente esalato dalla sua immobile posizione, perfettamente mimetizzato nelle venature di abete del rivestimento delle pareti della sala? E sopra tutto, cos’era quel velo di sorda angoscia che aveva attanagliato il cuore di tutti per l’attimo sia pur brevissimo in cui un Martocleto aveva sorvolato nella notte il villaggio dove si trovava il ristorante Storyoff, oscurando con le sue ali possenti la luce pallida che il Quarto di Luna proiettava quaggiù di costassù?

A questo punto, come se fosse montata su un drone silenzioso, la “macchina da presa” (per usare l’antico linguaggio cinematografico) passa in campo lungo, alzandosi e allontanandosi sempre più, lentamente e inesorabilmente, uscendo dal soffitto ma continuando a riprendere la scena del banchetto.

E cosa succede attorno al tavolo? Ognuno può vedere ciò che vuole vedere, la distanza sempre maggiore impedisce di distinguere bene, vale il principio di indeterminatezza, se ci si fissa sui volti si perdono le voci, se si crede di riconoscere le persone non si distiunguono le posture.

Si può passare da un’estremo all’altro, dall’immagine di un allegro convivio che si protrae nella notte stellata, chiassoso e godereccio, alla visione di un’improvvisa angoscia che segna i volti dei commensali e tacita le voci all’istante, lasciando tutti a fissarsi immobili da un capo all’altro del tavolo, per sempre.

Di sicuro, adesso, c’è che il drone gira la macchina da presa verso le stelle e vaga per l’oscurità, dopo aver detto addio a tutti.

Fine2_pForse, chissà, tornerà all’astronave di Magda, pronta per nuove storie negli spazi siderei, o forse si stabilirà, più modestamente, su una bassa orbita stazionaria, dalla quale poi, lentamente ma inesorabilmente, precipitare.

Cambio coscienza quotidiano

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Richard van de Morgensteif, disteso a letto durante il risveglio mattutino, stava lentamente effettuando quello che lui chiamava il “cambio coscienza quotidiano”: le vivide fantasie notturne si dissolvevano inesorabilmente come neve al sole lasciando il posto al confuso vagolare dei pensieri diurni. “Confuso mica tanto però”     pensò Richard     ” e, soprattutto, mica sempre!” . In effetti la sua veglia alternava momenti di attenzione vigile ed eretta a periodi di prostrazione profonda. Nei momenti di maggior vigore Richard tentava di mantenere il controllo della situazione, di fare il punto del suo essere consapevolmente conscio di ciò che faceva. La chiave, lo strumento che credeva gli permettesse di navigare ed orientarsi nel flusso degli accadimenti di ogni giorno era la memoria. E siccome sapeva che la sua memoria fisica non era solidissima, aveva ritenuto opportuno compilare elenchi che ogni giorno integrava con le novità.

Elenco dei libri posseduti e quali di questi effettivamente letti e in quale periodo

Elenco dei film visti e di quelli archiviati in copia

Elenco dei viaggi fatti, specificando se trattavasi di viaggi veri e propri oppure semplici gite di uno,due o tre giorni e integrando con le informazioni riguardanti l’itinerario, i pasti, l’alloggio, i mezzi usati per gli spostamenti, nonchè le annotazioni sulle cose viste e fatte

Elenco delle persone conos….

Quello che a volte lo frenava in questo compitare aiuti mnemonici per documentare lo svolgersi della sua vita era il dubbio che in effetti l’unico fruitore di questi elenchi era lui stesso medesimo e nessun altro. A chi poteva importare, tra uno, due, dieci anni (cento poi…!) dove era andato il 10 luglio del 1953, o se aveva effettivamente visto e rivisto ” Mariken van Nieumeghen ” di Jos Selling in lingua originale sottotitolato in giapponese, o se possedeva tre edizioni della Finnegan’s Wake non tradotte nè traducibili?

A chi? Ai suoi figli? Non ne aveva, e di conseguenza non aveva neanche nipoti. A sua moglie, ai suoi amici? Avevano più o meno la stessa età, si conoscevano da sempre e sarebbero morti, nella migliore delle ipotesi, più o meno negli stessi anni…

Questi pensieri, che si affacciavano con preoccupante regolarità alla mente di Richard, erano quelli che lo facevano inesorabilmente passare dallo stato di eccitazione a quello di prostrazione inerte, mentre, con un ultimo spasmo costruttivo, egli tentava di elucubrare sull’utilità della memoria, sulla necessià di ricordare, per cercare di dare un senso, di tenere traccia degli avvenimenti per allinearli sull’ “asse del tempo”, come se il tempo andasse veramente in una direzione, su binari prestabiliti. Come se poi, sporgendosi dal finestrino del treno in corsa, guardando indietro, si potesse scorgere tutto il paesaggio fino alla stazione di partenza, lontana chilometri e chilometri di rettilinei, curve e gallerie.

Perlage

Otto Abendmann guardava con interesse la figura alta e massiccia seduta accanto a Hubert von Totenschwanz. Il nuovo conoscente si chiamava Richard van de Morgensteif, ed era, a quanto pareva, di nobile casato, di quella esclusiva congrega, i cosiddetti “Baroni Baltici”, che riuniva antiche famiglie di origine Sassone, insediatesi nei Paesi sulle rive del Mar Baltico durante il periodo dell’Impero Germanico. Biondo, i capelli corti dalla sfumatura alta lasciavano scoperta la nuca rosea. Il collo si ergeva quasi straripando da una camicia a righine azzurre senza colletto. Era vestito con una ricercatezza un po’ demodè.

“Richard…  Dick, insomma…” sogghignò tra sè Otto, così, tanto per abbassare lo sconosciuto al suo livello.

Come un nobile di tale stirpe fosse finito seduto al tavolone della birreria “Zur höpfinger Welt” assieme a Otto e Hubert non è dato sapere, ma senz’altro era stato trascinato lì dall’entusiasmo e dalle doti affabulatorie di von Totenschwanz. Mentre Otto fissava il colore rosso violaceo del suo calice di Teroldego e Hubert il giallo maturo del suo Traminer passito, van de Morgensteif sembrava affascinato dallo svolgersi continuo del fine perlage dal fondo del suo flûte di champagne. Lo colpivano sia l’incessante generarsi, apparentemente dal nulla, delle scie di bollicine, sia il loro progressivo aumento di volume man mano che si avvicinavano alla superficie. E cosa altrettanto degna di nota era il diminuire della loro velocità ascensionale all’aumentare del loro volume.

Van de Morgensteif comunicò ai suoi nuovi amici le sue riflessioni, ed essi si stupirono non poco. Pensavano infatti di aver esaurito da tempo le osservazioni che si potevano fare su un bicchiere di vino, una volta considerati il colore, il profumo ed il gusto. Ma ecco che si aprivano nuove possibilità. Era stato sufficiente considerare un nuovo tipo di vino, frizzante anzichè fermo. Dunque anche le loro speculazioni sull’ Universo mondo e i suoi astri, e pianeti, e meteore potevano riprendere vigore, partendo dalla constatazione che esse si erano arenate a un punto morto perchè da lì, da quella birreria d’osservazione dove sedevano inchiodati non si scorgeva altro, ma quel qualcos’altro  esisteva, doveva esistere, al di là dello spazio-vino immoto. Ecco! Il tempo, la quarta dimensione indispensabile completamento della visione einsteiniana del Mondo, esplicava i suoi effetti, ma non come concetto astratto e fermo, bensì afferrabile solo nel suo continuo svolgersi, come fine perlage, verso un dove o un quando che ora tutti e tre cercavano di raggiungere con lo sguardo fisso al capriccioso moto browniano delle volute di fumo della sala.

perlage2

 

Ester Bolenghin, entrando al mattino al “Zur höpfinger Welt” per un caffè, li vide ancora seduti al loro tavolo, immobili dalla sera prima. Mentre Otto e Hubert erano assopiti con il capo reclinato sul tavolo, van de Morgensteif, quell’uomo fiero, alto, massiccio e a lei sconosciuto sedeva ritto e rigido al suo posto. Attratta d’istinto, come sappiamo spesso le accade, incurante di un certo senso di effimero che pure l’uomo le ispirava, Ester gli si avvicinò e lo abbracciò da dietro, circondandolo con le sue braccia. Appena posò le sue labbra sulla nuca rosea dell’uomo, questi si afflosciò, come appagato.

Whoere are they?

Se lo era chiesto ancora: ma i vari personaggi, si conoscono? Hanno qualche relazione al di fuori delle loro comparsate sul blog? Essendo quasi tutte coppie, si potrebbe pensare a una qualche forma di vita sociale, qualche invito a cena, qualche serata a conversare o a guardare qualche vecchio film, o solo magari a bere qualcosa in compagnia. Non sapeva darsi risposta. Aveva memoria di qualche occasione di incontro sul blog, rare gite effettuate da un paio, massimo tre coppie, ma niente di che. Provò ad ascoltarsi dentro. Dentro la sua testolina. Che gli ricordava la cabina telefica del Doctor Who. (senza punto di domanda, eh!). Il Doctor Who è una serie televisiva che prosegue prolifica da dodici anni o giù di lì. Il protagonista abita e viaggia nel tempo e nello spazio a bordo di una cabina telefonica stile inglese, ma blu, con la scritta luminosa “Police” sul tetto; di quelle che nel Regno Unito si trovano ogni tanto (davvero?) con dentro un telefono collegato solo e direttamente alla Police, per casi di emergenza. Ebbene, varcando la soglia di questa cabina di un metro x un metro si entra in un salone vastissimo, enorme, assolutamente incongruo con l’aspetto esterno. Questo stanzone di duecento mq è la barocca plancia di comando del marchingegno (astronave è concettualmente riduttivo) che con gran fragore e strepito e barriti e ruggiti trasporta il Doctor e i suoi compagni di viaggio in giro per le galassie dell’Universo, giocando con le linee del tempo, mescolando passato e futuro, a volte anche il quasi presente.

testa

Ecco, anche Lui si sentiva così, guardandosi allo specchio: capelli, due occhi, un paio di orecchie, un naso, una bocca, i soliti elementi, nè pochi nè tanti, ma se chiudeva gli occhi, nei giorni giusti, poteva perdersi nelle stanze, nei prati, nei monti all’interno della sua testa e curiosare cosa facevano e dicevano i suoi personaggi. Che da un po’ erano silenziosi.

Forse è il Natale imminente, pensò. Forse. Perhaps. Who knows?

Certo che l’aria che tira, fuori di testa, è brutta brutta: girano certi personaggini… e anche, anzi soprattutto, la gente comune, la base, come si dice, non dà alcun affidamento. Anzi, pensava, fa proprio schifo. “Più di ieri, meno di domani” leggeva sulla medaglietta di tanti anni prima, che gli ondeggiava davanti agli occhi.

Bah!

Dal diario del gesuita rev. Martin Pelvin, missionario al seguito della spedizione di sir J. Cook alle Terre Australi. (*)

 

“On Friday, the 13th October 1771 A.D. our noble vessel “H.M.S. – Orny to Rinco” finally landed at Botany Bay, on the southernmost coast of the misterious Island that we named Australian Continent. We soon came in touch with the pacific Aborigenal population. The most rilevant problem we found was the firm disappoint of Aborigins against the Cooked food we offered them (with a certain amount of strength indeed, I must admit…). Actually, the Natives fiercy opposed to our Catholic way of feeding, propending for their Natural Convinctions, which were after then called Protestant Worms Diet… ”

 

 

(*) per gentile concessione,  dagli archivi privati di Hubert von Totenschwanz

Passeggiare – 2

…  E proprio alle pendici di un vulcano non del tutto sopito, Ester Bolenghin era riuscita a coinvolgere per una gita, oltre al suo prediletto Aurelio Bagolari, anche gli amici Tilla Galauvergne e Adelmo Corniolet, assieme a Redenta Calben e Antelao Spit. Incredibilmente, con la (vana) promessa di dolci pendenze e modica quantità di salato sudore, si erano lasciati convincere anche i due pigri e corpulenti Hubert von Totenschwanz e Otto Abendmann. Come spesso accade in quei casi, il cammino favorisce l’intecciarsi di discorsi tra due, tre persone al massimo, che di volta in volta il percorso, con i suoi dislivelli, seleziona e rimescola, in base a fiato e fatica. Così come accade che qualcuno si isoli nello sforzo, in silenziosi soliloqui meditativi per lunghi tratti. Poi, ogni tanto, in punti particolari come un bivio, uno spiazzo tra i mughi, un ruscello o una zona d’ombra ristoratrice, il gruppo sosta e si ricompatta. I discorsi muoiono, ci si scambiano impressioni, dolciumi e bevande ristoratrici. Poi si riparte. I gruppetti a poco a poco si riformano, spesso con nuove combinazioni di persone e rinnovati argomenti di discussione.

Ester quella volta era ripartita da sola, con incauta foga, immersa nei suoi pensieri, distanziando rapidamente i compagni. Fu così che dopo alcuni minuti, quando la raggiunsero, la trovarono in deliquio, inginocchiata, lo sguardo fisso e sbarrato su una piccola distesa di rocce affioranti, dalla forma bizzarra.

 

fossile_a

 

Come spesso accade (come già successe ad esempio qui oppure qui ), la sua capacità “visionaria” l’aveva portata a una delle sue scoperte inattese: le “pietre del dolore fossile”,  l’ “Ur-Schmerz” della cui esistenza tanti studiosi, filosofi e anche anime semplici avevano sempre sospettato, senza averne però evidenza provata. Quelle rocce, atteggiate a urlo disperato, testimoniavano come il “dolore” fece la sua comparsa nel mondo all’improvviso, catapultato all’aperto tutto in una volta e già con tutta la sua intrinseca intensità, ai primordi della vita. Non si è poi sedimentato nei secoli per trasformarsi in qualcosa di diverso, di meno ossessivo o più sopportabile, ma ha continuato ad accumularsi intatto in indicibili cataste, seguendo spietati schemi rigidamente ripetitivi. Quello che succede, che la comunità scientifica sospettava, ma che questo ritrovamento ha confermato, è che i dolori più vecchi vengono sepolti da quelli recenti, e per questo essi vengono ignorati, dimenticati o malamente rimossi per non doverli più vedere. Ma rimangono. Prima o poi riaffiorano. Ed Ester con sgomento osservava come ogni pietra fossile si potesse ridurre in pezzi più piccoli, ma anche come ogni frammento conservasse immutata la quota di dolore originaria della pietra madre. Quindi, di fatto il dolore, lungi dall’attenuarsi, si riproduceva, non c’era speranza di redenzione (Redenta Calben posò imbarazzata una mano sul capo di Ester…).

“E d’altra parte, “ cercò di spiegarle il suo Aurelio Bagolari “ il dolore, quello  “fossile” esiste da sempre come diretta conseguenza della forza evolutiva del tempo e della materia. Entropia unidirezionale senza scampo, unico motore dell’universo, fine a se stesso, fine ignota. Speranza, redenzione, pietà (e anche amore e odio) sono sovrastrutture umane costituitesi a posteriori nei millenni, nel vano tentativo di sopportare meglio” (Aurelio Bagolari, pilota di pachera gialla, in montagna raggiungeva a volte  vette di lirismo filosofico  impensabili, a vederlo lì, col suo aspetto semplice, alla mano…)

Dolcemente, Aurelio cinse le spalle di Ester, aiutandola a rialzarsi e a superare l’ennesima crisi che l’aveva colpita. Il rifugio Cianghettini, su a quota 2875 m. slm era all’altro capo del mondo, ma lui, previdente, si era portato dietro da quel rifugio una bottiglietta di quella grappa che tanto aiutava Ester in quei frangenti…

 

Passeggiare – 1

Passeggiare può essere noioso o stimolante, dipende dal contesto e dalla compagnia. Passeggiare in montagna raramente è noioso, sia per lo sforzo, che può essere a tratti anche pesante, sia per il panorama circostante, quasi sempre vario in tutti i suoi aspetti.

Camminare nelle Dolomiti è come leggere un romanzo storico, in cui i capitoli si susseguono ordinati e le vicende si stratificano sedimentandosi lentamente nei secoli e nei millenni. E vi si possono cogliere stupendi e rari tesori.

rapunzel

Naturalmente, si sa, i rischi sono sempre in agguato: così come scendendo troppo in profondità nel mare è poi difficile rilasalire, altrettanto,  su queste rocce nate dalle acque, bisogna stare attenti a non salire con troppa disinvoltura per non dover poi precipitare inesorabilmente.

caduta

Camminare su rocce nate dal fuoco, invece, è tutt’altra esperienza. Lì non c’è spazio per lunghi racconti, gli eventi eruttano improvvisi e immediati, i colori violenti sono accostati in contrasti senza sfumature, le pieghe della lava e gli gli scoppi di magma  si congelano al contatto con la realtà quotidiana, fissati per sempre. In questo ambiente ostile, ancorchè fantastico, c’è poco spazio per la vita.

fossile

“L’estremo barrito ahi lui esalò…”

L’aula dove avvenivano le discussioni delle tesi di laurea era discretamente gremita, e quando giunse il suo momento, a Pacifica Corniolet mancò per un attimo la voce per l’emozione.

“Vai Packy!” . L’incoraggiamento stentoreo di suo padre, Adelmo Corniolet, la mise ancor più in imbarazzo. La madre, Pulsatilla Galauvergne diede di gomito al marito, irritata. C’erano tutte le persone care, da Magda a Ester, da Antelao a Redenta, fino ad Ellie,fantesca di Packy dalla nascita. In fondo all’aula, un po’ in disparte, con aria grave, Otto Abendmann e Hubert von Totenschwanz tenevano d’occhio la situazione, pregustando impazienti il brindisi che sarebbe di lì a poco seguito. La piccola Packy si stava laureando in archeologia fossile, e la tesi verteva

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“…sul ritrovamento di ciò che doveva essere inequivocabilmente l’elefante di Annibale, morto presumibilmente  (il pachiderma) di stenti e/o malattia durante l’attraversamento delle Alpi. La scoperta del fossile, avvenuta nei boschi dietro casa, non era stata casuale, ma frutto di attente ricerche sulle rotte migratorie Africa-Europa seguite all’epoca, che prediligevano la via terrestre al trasbordo per mare, stante il peso dei pachidermi e la povertà di mezzi dei natanti di quei tempi. E se il rinvenimento era stato laborioso, non meno problematico fu l’attribuzione dell’ormai fossile elefante alla proprietà di Annibale medesimo in persona. Ma dopo difficilissime e costose tecniche di lettura e decodifica del DNA e delle impronte, si era riusciti a stabilire al di là di ogni ragionevole dubbio che l’animale all’epoca non era al servizio di un guerriero qualunque, di un milite ignoto, ma proprio al Comandante in capo, Annibale il Condottiero. E grande dovettero essere il suo dolore e il disappunto per la perdita dell’amato bene, come è testimoniato ulteriormente da un papiro di doglianza inviato alla moglie Imilce rimasta in Patria (cfr rep. XLVII-1234 – “L’estremo barrito ahi lui esalò…”). Anzi, tale fu la sua costernazione che sulle prime pare volesse rinunciare alla spedizione in terra italica. Poi, visto che il dado era stato tratto, si decise per la continuazione dell’impresa…”

Al termine dell’esposizione, Packy ricevette i complimenti della Commissione e un lungo bacio accademico. Gli astanti scoppiarono in fragoroso applauso.

Più tardi, dopo numerosi brindisi, Otto e Hubert si scambiano, come spesso accade, qualche frivolezza.

“Eh, Otto, il tempo passa, secoli e secoli, ma l’uomo non cambia mai!”

“Lo sappiamo Hubert, lo sappiamo.” Pausa per un sorso di vino. Rosso.

“Si va, si viene, si cambia casa e paese…”

“Ci si affanna, ci si danna…”

“Si ama, si soffre…“

“Si ammazza un po’ di gente…”

“Ci si affida all’animale di turno… e poi, sul più bello… zac!”

“Si muore, perfino…!”

“Buono questo rosso, cos’è?”

Apparve all’improvviso

Apparve all’improvviso, tra le foglie della boscaglia. Pulsatilla Galauvergne se lo trovò davanti. O forse è meglio dire che se la trovò davanti? Perché nella calura del pomeriggio torrido tutto aveva contorni indefiniti, mal dettagliati.

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Uomo o donna? Giovane o vecchio? Bruciato dal sole o ustionato dalla vita? Velata per fede iconoclasta o velato per difendersi dalle sabbie infuocate? Dietro il bavaglio, o il riparo, la bocca stava parlando, urlando o tratteneva muta il respiro? E gli occhi… c’erano ancora degli occhi in quelle orbite disabitate dalla ragione? Ancora vivo o già rinsecchito in quest’assurda estate dolente?

 Tilla non fece in tempo a chiedere “Chi sei…? “ che già l’immagine appassì sullo sfondo della boscaglia.

 “Che domande fai, Tilla…” –  la rimproverò triste e rassegnato Adelmo Corniolet –  “… che importa chi o cosa sia o sia stato quel volto, quel simulacro, quel ritratto di ciò che siamo e siamo stati, dall’inizio, dalla notte dei tempi. Dolore. Forse gioia, a sprazzi. Odio. Forse amore, a sprazzi. Variazioni sull’unico tema, da secoli e secoli.”

 “Andiamo a casa, Adelmo”

 “Sì, Tilla.”

George

Giorgio. “George”, come lo chiamavano gli amici. Con accento marcatamente “british”, a metà tra il richiamo e la caricatura, proprio come Mildred, energica casalinga cockney, negli anni ’70 apostrofava il suo mite e smilzo George, omino rossiccio con baffetti e sguardo rassegnato. Grandi George & Mildred . E grande il nostro George lo era davvero, a dispetto del nome: alto e ben piantato, quasi cicciottello, ma sodo. Sguardo vispo e niente affatto sottomesso.

george

Otto Abendmann se lo ritrovò davanti una sera, in strada. George! Ma sei tu? Riemerso dalle nebbie del passato. Quarant’anni, una vita. La vita trascorre per tutti. A volte per alcuni finisce, prima della tua. Ma George/Giorgio era ancora, evidentemente, vivo. Otto provò un lieve senso di impazienza, di impotenza, nello scoprire che non sarebbe riuscito, come avrebbe voluto, a coprire/scoprire le esperienze, la vita di George e la sua in un attimo, nel breve lasso di tempo che dura un abbraccio e lo sguardo del riconoscimento, del riannodarsi dei fili spezzati della conoscenza. Si ha un bel dire che due amici che si rivedono dopo anni ritrovano l’intesa immediatamente. L’intesa per cosa? Per ricominciare a progettare insieme? Dopo quarant’anni la vita è trascorsa, per entrambi, e c’è spazio solo per ricordi e confronti, il futuro è ormai nel fonde dell’imbuto. Tutti questi pensieri attraversarono la mente di Otto, nascendo e morendo nell’attimo di smarrimento che precedette il ristabilimento delle giuste distanze. Sembra incredibile ma al contrario dello spazio, la dimensione tempo possiede la capacità di dilatarsi o comprimersi quasi all’infinito dentro la mente, come succede ad esempio con certi sogni che durano un istante assoluto ma raccontano avvenimenti di ore e di giorni. E quindi, la seconda occhiata, a mezzo metro, dopo l’abbraccio, servì a prendere le misure. Le misure dello spazio e del tempo in cui incasellare l’avvenimento/incontro casuale della sera, tra la scaletta di (non) impegni di entrambi.

Quello che seguì non è importante. George svanì lentamente ma inesorabilmente nelle nebbie del suo passato appena appena arricchitosi del breve incontro presente, mentre Otto Abendmann probabilmente si congedò pensando a cosa avrebbe bevuto di lì a poco assieme a Hubert von Totenschwanz.

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